Fu un po’ come salpare per le Indie e sbarcare in America.
“Chi cerca, trova”, recita il proverbio. Magari non trova quello
che si aspetta, magari trova qualcosa di molto più raro e speciale. E
soprattutto di imprevisto.
Le stelle ondeggiavano quella sera sul ponte superiore dell’Aldebaran.
Era come se cullassero i corpi indolenti adagiati sui cuscini a recuperare le
forze. Era come se li avvolgessero in un dolce dondolio per consolarli, per
rasserenarli. Perché i volti erano seri, assorti. Guardavano il cielo
del colore del mare, ipnotizzati dallo scintillio tremulo delle stelle che brillavano.
Volti silenziosi, pensierosi, pieni di nostalgia e di stupore. Qualcuno obiettò
che fosse la barca ad ondeggiare e non gli astri celesti. Ma che importava?
Perché disilludere da quella magia, da quell’incantamento che rapiva
l’anima e prolungava quello stato idilliaco di appagamento? La sorpresa
si sposava con l’incredulità al ricordo della crociera appena trascorsa
nel Mar Rosso, a ridosso dei comprensori corallini del sud dell’Egitto.
Nessuno si sarebbe aspettato quello che accadde veramente, nessuno avrebbe potuto
prevederlo, soprattutto per come il viaggio era iniziato.
Il tragitto da Marsa Alam al porto di Hamata, dopo un volo in ritardo di due
ore e dopo un’altra ora di estenuante fila all’aeroporto per l’espletamento
delle pratiche doganali, era trascorso su un pulmino carico di attrezzature
e di speranze. C’era chi aveva ceduto alla stanchezza e dormiva raggomitolato
sul sedile e chi invece, in preda all’euforia, parlava in continuazione,
eccitato e adrenalinico. La notte è giovane, soprattutto quando, superato
il momento fisiologico del proprio bioritmo, ci si scuote dal torpore e si ha
la sensazione di poter andare avanti ad oltranza annullando il tempo del sonno
a vantaggio di quello della veglia. Distese di piste sabbiose senza luci, canyon
di wadi senza acque, poveri villaggi senza case, chilometri divorati nel cuore
magico del deserto.
Alle tre del mattino, finalmente, si giunge a destinazione e si sale sulla lussuosa
imbarcazione da crociera. Difficile ambientarsi, rendersi consapevoli subito.
Si è alquanto frastornati, ma l’accoglienza è gentile, il
letto è comodo e la stanchezza può finalmente trovare soddisfazione.
Il mattino seguente, dopo appena quattro ore di sonno, l’atmosfera è
cambiata. Tira aria di bufera. Eppure il mare è una tavola, piatto, placido,
rilucente sotto i raggi del sole che illuminano radiosi il nuovo giorno. C’è
tensione nell’aria, si è discusso animatamente, si è protestato
con veemenza. I responsabili dell’organizzazione sono attaccati ai cellulari,
chiamano la sede centrale, per avere chiarimenti, per trovare soluzioni. C’è
stato un grossolano errore, un fraintendimento sulla destinazione. Quella promessa
e venduta nel pacchetto di viaggio originario, in realtà, non si farà.
C’è un cambio di itinerario in corso d’opera. Panico, disorientamento.
Metà dei subacquei presenti ha aderito ad un programma che non è
lo stesso venduto all’altra metà? Che confusione! Musi lunghi,
mugugni. Alcuni esprimono le loro rimostranze senza mezzi termini, minacciando
addirittura di scendere dalla barca. Altri, dopo essersi ripresi dallo shock,
la prendono con filosofia. Oramai siamo qui, godiamoci la vacanza, anche se
non è quella che ci aspettavamo. Eppure, un sentimento di irridente compiacimento
per questo scherzo del destino s’insinua nella mente di qualcuno. Già,
il destino. Non sarà che tutto questo sia un augurio di buona sorte,
un segnale che la dea bendata sta mandando agli scettici, invitandoli ad uscire
dalle rigide categorie di ciò che è scontato per lanciarsi nel
mare magnum dell’imprevedibilità? Non sarà che stiamo partendo
per le Indie e scopriremo l’America?
Il tempo necessario per elaborare la delusione e riadattarsi alla nuova situazione,
la scoperta della buona fede dell’organizzatore che si profonde in scuse
per quell’imperdonabile svista dovuta semplicemente a disattenzione da
super lavoro, sono condizioni sufficienti perché, a metà mattinata,
il comandante molli gli ormeggi e volga la prua in direzione sud, verso la misteriosa
e leggendaria isola di Zabargad.
Appare così, color del magma rappreso, vulcanica e fossile, circondata
da una laguna celestiale che un reef corallino affiorante circonda come una
corona tempestata di pietre preziose. E i gioielli in questione hanno le tonalità
del topazio, verde olivina, come le gemme estratte dai giacimenti minerari di
un terreno brullo, aspro, bruciato. Luogo di riproduzione delle tartarughe marine,
che qui si trascinano faticosamente per il compiersi dell’antico ed eterno
rito della natura. Nelle calde notti d’estate, scavano buche nella sabbia
arida, la dissetano dall’arsura con le lacrime versate come gocce di rugiada
ad ammorbidire, a rinfrescare e a preparare ricoveri protetti come incubatrici
per la schiusa delle uova. A primavera i nidi aerei dei falchi pescatori, in
agguato a ghermire le prede che traspaiono a pelo d’acqua, riempiono l’aria
di cinguettii squillanti, di batter d’ali sgargianti. E il corallo, frammentato,
crea un alveo di fine rena rilucente che testimonia la narrazione geologica
e primordiale dell’origine, l’affioramento della crosta terrestre
a seguito della sollevazione tettonica di un frammento di litosfera del Mar
Rosso. Preludio di un mondo sottomarino scintillante, giardino di madrepore,
coltivato dei boccioli schiusi di rose rosse, inganno floreale delle uova di
ballerina spagnola che sfodera il suo mantello di notte, in una danza ipnotica
e voluttuosa. Murene fuori tana in caccia, pesci napoleone in cerca, pesci scorpione
in marcia. Pterois volitans enormi, in gruppo, distendono le pinne zebrate,
le sbattono come ali svolazzando in ogni direzione, infilandosi in mezzo alle
gambe e inseguendo la luce delle torce, insistenti, caparbi, invadenti.
Il microcosmo di Zabargad cede il passo all’universo mondo di Rocky Island.
Pareti che sprofondano nel blu degli abissi marini, regno dei grandi pelagici.
Non c’è affollamento, ma esemplari solitari che incutono timore,
che impongono reverenza. Uno Sphyrna Lewini nuota sinuoso nel blu, a pochi metri
dal reef. E’ lento, maestoso, padrone. Ondeggia la testa da un alto all’altro,
offrendo alla vista ora l’una ora l’altra protuberanza. Sembra non
vedere, sembra non curarsi affatto di quelli che lo guardano ammirati, estasiati.
E’ guardingo, cauto, in stato di allerta. Si concede per una breve intensa
apparizione proprio quando i computer segnalano inesorabilmente l’eccessiva
profondità, ma in quel frangente niente è troppo eccessivo di
fronte ad uno squalo martello smerlato che trasforma un’immersione ordinaria
in un momento topico, memorabile, assoluto. I tonni stazionano curiosi a metà
del percorso, a pochi metri dall’uscita. Poco più in là,
a Sataya, l’acqua è increspata dalle acrobazie dei delfini stenella,
che fanno capolino tra i flutti in un divertente nascondino che si fa beffe
degli inseguitori. Il gommone va a tutto gas per tagliargli la strada, per piazzarglisi
davanti a rischio di un incidente frontale. Tutti in acqua. Niente indugi, bisogna
correre, veloci, idrodinamici, ad affiancare quella dozzina di cetacei striati,
che mimano il nuoto sincronizzato delle gare olimpioniche con la stessa grazia
e agilità delle sincronette, in uno spettacolo coreografico di danza
corale, esoterica e rituale.
Sarà solo l’aperitivo, l’anteprima di ciò che accadrà
più tardi, il giorno fortunato del 1 maggio nel sito chiamato Sha’ab
Claudio.
E’ un luogo famoso per il reticolo di tunnel, grotte e canyon attraverso
cui si passa rasenti le strette pareti calcaree in simbiosi con i giochi di
luce che inondano le cattedrali sommerse. E’ questo a rendere l’immersione
affascinante. Sarà, ma dopo il terzo, quarto passaggio, tesi nello sforzo
di controllare l’assetto per non sbattere goffamente la testa e per evitare
di toccare il fondo con le pinne, la stanchezza si trasforma in noia e anche
un po’ in irritazione. Fuori, sul pianoro sabbioso, all’aria aperta,
o, meglio, in acque aperte, il senso di claustrofobia e di costrizione scompare
come d’incanto. Si recupera la mobilità, si riacquista il gusto
alla libertà, allo spazio, alla visibilità. E d’improvviso,
in quel momento di relax e distensione, cinque delfini tursiopi si affacciano
dall’alto, guardano curiosi a testa in giù. Sono lì, ad
una decina di metri di distanza. Sono loro che osservano i subacquei, fanno
snorkelling e vedono strane creature marine che espellono bolle. Lanciano gridolini,
tutti contenti della loro scoperta. Peccato non poter essergli più vicini.
Si sa, è la classica situazione che si ripete. Quando si ha un avvistamento
sott’acqua, si valutano due cose: la grandezza e la vicinanza. E la gioia
dell’incontro si accompagna spesso alla frustrazione di non averlo avuto
più ravvicinato. Pazienza, sarà per un’altra volta. Pazienza
sì, ma un’altra volta no! All’improvviso, inaspettatamente,
sorprendentemente, incredibilmente, un delfino si stacca dal gruppo, scende
in picchiata di corsa e si piazza davanti alla faccia degli attoniti subacquei
contorcendosi, giocandoci, danzandogli intorno. Emette vocalizzi acuti e ridanciani,
comunica la sua allegria quasi a voler coinvolgere i fortunati presenti in un
girotondo vorticoso ed entusiasmante. Poi, dopo aver soddisfatto la sua curiosità,
risale e si riunisce al gruppo. Che meraviglia.
Si guadagna la superficie ancora increduli, in uno stato di trance, soverchiati
da tale e tanta fortuna. Lezione per gli scettici, per chi non ci crede, per
tutti coloro che eliminano il più possibile l’imprevisto dalle
loro esistenze, come se fosse una maledizione. Premio per gli ottimisti, per
chi ci crede, per tutti coloro che aggiungono il più possibile l’imprevisto
alle loro esistenze come se fosse una benedizione. Come se fosse un delfino
tursiope che gli si para davanti per coinvolgerli nel rutilante gioco della
vita. E non finisce qui. Una volta risaliti, dalla barca mani concitate indicano
il mare. I delfini sono lì, a pochi metri. E così, sempre quelli
dell’imprevisto, quelli che non vivono la vita come una serie pianificata
di scadenze ed abitudini, invece di seguire il suono della campanella che chiama
per il pranzo, si lanciano all’inseguimento dei delfini, che adesso sono
quattro. Si muovono dal basso in alto per raggiungere la superficie e respirare,
due maschi e una femmina con la pinna pettorale a cui è attaccato il
suo piccolo. Lo porta per mano, gli insegna il nuoto, lo accompagna a respirare.
E’ una scena struggente, la commozione dilaga, ottunde la mente. Si perdono
tutte le coordinate, si violano tutte le regole. Si segue i delfini sopra e
sotto, con le bombole ormai vuote, senza più preoccuparsi di soste di
decompressione, di tabelle e algoritmi, in una totale assoluta follia di passione
che gonfia il cuore di emozione e annulla la ragione in una apoteosi di sentimento.
E poi continua, continua per ore, in snorkelling, faccia a faccia con i tursiopi
che sembrano essersi affezionati ai loro immeritevoli ed umili ammiratori, rapiti
dalla loro stupefacente bellezza.
Chiedimi se sono felice. La vita è fatta di attimi brevi, fuggenti, irripetibili.
Quando si racconta del proprio vissuto, si pesca dalla memoria il ricordo di
momenti, di episodi isolati, che si sono stagliati nella mente per sempre. Momenti
di pura felicità che fanno una vita intera.
E così era accaduto anche nei giorni precedenti a St. John, dove ci si
immerge affabulati dall’ammaliante semantica dei nomi arabi. Umm El Aruk,
la madre dei pinnacoli, arredata da un sontuoso tappeto di anemoni dalle tonalità
brillanti, appare come la nursery di piccoli e grandi pesci pagliaccio, soggetto
privilegiato di scatti fotografici iridescenti. Abili Ali, reef sottomarino
che non emerge, parete che sprofonda allungando nel blu i rami di gigantesche
gorgonie come una foresta lussureggiante. Per ultimo, lo spettacolare sito chiamato
Abili Gaafar, cappello corallino che non affiora, dove miriadi di anthias color
del fuoco incendiano l’azzurro del mare come scintille che si sprigionano
disordinate e luminose. Ovunque alcionari dalle mille sfumature del rosso, del
violetto, dell’indaco, allegoria della scala cromatica dell’arcobaleno.
Un labirinto di madrepore abbaglianti, sfumature fulgenti schizzate dalla tavolozza
del pittore che dipinge le profondità sommerse di un Mar Rosso unico
e universale. Un polpo allunga i tentacoli, si guarda intorno e si trasforma,
cangiante e metamorfico, alla ricerca dell’anfratto più accogliente.
Durante la decompressione una tartaruga si stacca dalla barriera brulicante
di vita, raggiunge la superficie a respirare e si immerge a testa in giù
con il carapace inondato di luce. Lo colora di oro rilucente e lo trasforma
in una palla luminosa che abbaglia la vista.
L’imbarcazione riprende la navigazione e ormeggia nei pressi di Sha’ab
Mahrus, colonna corallifera che si staglia dagli abissi. Uno squalo pinna bianca
di barriera incrocia la rotta dei subacquei, tranquillo, lento, indolente. Strano,
perché alle sue spalle appare in lontananza un altro esemplare della
stessa razza, ma agitato, veloce, frenetico. Gira diverse volte in circolo,
doppia l’angolo della parete, scompare e riappare. E’ uno squalo
grigio, dalla stazza imponente, probabilmente intento nella strategia di caccia
della preda o nel godimento del trattamento di bellezza della stazione di pulizia.
E’ una sfida, un gioco di rimandi, ha qualcosa a che vedere con la provocazione
amorosa. Sembra dire: mi segui o non mi segui? Sono qui, raggiungimi, prendimi!
E i più ingenui, i più incauti cedono alla lusinga dei sensi e
si catapultano a tutta velocità per raggiungere l’oggetto agognato,
che si fa desiderare, che si fa inseguire. Ma al primo cenno di adescamento,
il Carcharhinus plumbeus si dilegua, beffardo e sornione, lasciando l’inseguitore
con un palmo di naso e per di più deriso e additato dagli altri al pubblico
ludibrio. La gogna non si prolunga se non per un breve lasso di tempo, il tempo
di perdonare un atto impulsivo e inopportuno, dettato però dalla passione,
da quell’intrattabile amoroso che spinge l’animo umano a perdere
il lume della ragione.
Il riscatto non tarderà ad arrivare. Si è alla fine della settimana.
L’itinerario, questo vincolo già violato in partenza, si ripropone
con forza all’arrivo. Dove svolgere le ultime immersioni di questa imprevedibile
crociera? Il gruppo si divide, di nuovo. C’è chi vuole a tutti
i costi seguire la tabella di marcia prevista e chi propone una deviazione,
un cambio di destinazione in corso d’opera. E’ già stato
fatto e ha portato solo sensazionalità. Ha regalato incontri insperati,
straordinari, magnifici. Perché non assecondare il destino, seguire l’onda
e rischiare ancora? C’è la possibilità di avere un altro
raro, prezioso, prodigioso avvistamento. E’ difficile, è quasi
impossibile, le statistiche tutte lo escludono, ma perché non provare?
La fortuna arride agli audaci, mai lasciare niente di intentato. Con un fenomenale
colpo di scena, il comandante si dichiara disponibile e offre alla ciurma un
regalo munifico: ultima giornata da trascorrere alla mitica Elphistone Reef
con sosta in tarda mattinata a Marsa Mubarak. Quei pochi mugugni di disapprovazione
cedono il posto all’entusiasmo riconoscente per un uomo che, insieme alle
guide sensibili e professionali della barca, ha voluto accontentare un gruppo
di clienti sui generis, un po’ sbandati, un po’ disorganizzati,
ma ricchi di allegria e disposti a cimentarsi con l’improbabile.
La punta sud del plateau più famoso al mondo mostra l’arco dalla
profondità impronunciabile, leggenda di ogni subacqueo. L’acqua
è di vetro, le correnti sono assenti. Solo l’eccessivo affollamento
di masse informi e scomposte di turisti della domenica disturbano questo paradiso
sottomarino, che soffre dell’eccesso di commercializzazione. Lo stesso
appare come preavviso di sfratto nella splendida baia di Marsa Mubarak, a pochi
metri da Port Ghalib. Una distesa infinita di barche da crociera è ormeggiata
a ridosso del litorale soffocato dai resort all inclusive in continua costruzione.
Sull’Aldebaran regna la confusione. Si va in acqua con le bombole o in
apnea? Dubbio amletico, dubbio atroce. Qui non si può sbagliare. Qual
è il metodo migliore, quale sarà la giusta strategia? Ancora una
volta l’esperienza delle guide viene in soccorso. Bisogna provare in snorkelling,
leggeri, solo con pinne e maschera. E così sia. Sono in pochi quelli
che decidono di osare, di provarci. L’importante è crederci, pensa
se c’è davvero! Salgono sul gommone, tesi, nervosi, speranzosi.
Alla vista di un assembramento di gente intenta a guardare con la faccia riversa
nell’acqua turchina, scendono silenziosi, in un mutismo scaramantico.
Una tartaruga oceanica si libra leggiadra. E’ lì che si nutre,
addenta enormi diafane meduse della trasparenza dei petali di viola. E’
circondata da mille presenze che l’ammirano, la coccolano, l’accarezzano
non rendendosi conto di soffocarla, soffocarla di troppo affetto. Ci si allontana,
per rispetto, si riprende il gommone e si giunge in una specchio della laguna
dove c’è un solo natante. Nessun altro. I due capitani si guardano,
gesticolano, si scambiano informazioni in un linguaggio cifrato, ma semplice,
chiaro, evidente. Puntano il dito nell’acqua. Un tuffo al cuore.
Ci immergiamo nel punto esatto indicato, dritti, verticali, in apnea. Lui è
lì, disteso su un giardino di posidonia, che bruca l’erba, tutto
intento a sbuffare la sabbia per filtrare le piante marine. E’ tranquillo,
pacioso, non si accorge delle nostre presenze, discrete, silenziose. Il silenzio
dell’emozione. Si fa fotografare, si fa ammirare, dolce, morbido, con
la sua splendida coda a sirena. La sirena dei mari. E’ lì, a discapito
di tutto, della sconfortante previsione che lo condanna ad un tragico destino
d’estinzione. E’ lì, a discapito di tutti, incurante della
folla irrispettosa che ha violato il suo territorio con un’invasione presuntuosa.
La notizia si sparge nella baia in un batter d’occhio. Barche di tutte
le dimensioni si dirigono a tutto gas verso il luogo d’elezione. In quel
momento, e solo in quel momento, allarmato dal rumore del motore che tante volte
gli ha graffiato il dorso lasciandogli cicatrici indelebili sulla pelle dorata,
il dugongo scatta, nuota sinuoso verso la superficie, emerge con le narici a
respirare e si allontana con un colpo di pinna caudale che ha l’eleganza
del delfino e la movenza del lamantino. Che meraviglia.
Lezione per gli scettici, per chi non ci crede, per tutti coloro che eliminano
il più possibile l’imprevisto dalle loro esistenze, come se fosse
una maledizione. Premio per gli ottimisti, per chi ci crede, per tutti coloro
che aggiungono il più possibile l’imprevisto alle loro esistenze
come se fosse una benedizione. Come se fosse un dugongo che gli appare a sorpresa
per coinvolgerli nel rutilante gioco della vita.
La crociera a Zabargad, Rocky Island e St. John si congeda così, tra
i sorrisi di gioia, le lacrime di riconoscenza e lo stupore ancora incredulo
per quello che questo luogo del mondo ha regalato a tutti coloro che gli hanno
dato fiducia e che l’hanno amato.
Eravamo partiti per le Indie e abbiamo scoperto l’America, nelle sembianze
di un Mar Rosso di passione, di emozione, di commozione. Un Mar Rosso costellato
di momenti di pura felicità, che si staglieranno per sempre nella nostra
mente e nel nostro cuore.