Islas Revillagigedo, le Galápagos messicane.
Ci risiamo. E' mai possibile che quasi tutte le isole sparse nell'Oceano Pacifico
orientale, quello che lambisce le coste occidentali del Centro e Sud America,
siano puntualmente definite attraverso un'identità che non é
loro propria? E' mai possibile che, al fine di gratificarle con prestigiosi
paragoni, se ne sminuisca l'unicità e se ne mortifichi la dignità?
E' come dire "io amo una donna come te", che significa "io
non amo te, ma una come te"!
Le isole Revillagigedo sono le isole Revillagigedo, le Revillagigedo messicane.
Appartengono a se stesse e sono uniche, senza nulla togliere alle isole Galápagos
e alla loro altrettanto straordinaria unicità, a meno che un giorno
qualcuno le definisca le "Revillagigedo ecuadoriane!"
La prima difficoltà che si presenta al profano, é la pronuncia.
Non é facile. Le due "g" della parola Revillagigedo vanno
pronunciate con lieve aspirazione.
E poi, ma cosa sono, chi le ha mai sentite nominare?!
E chi le ha mai viste? Non sono neanche segnate sull'atlante, il più
delle volte. Un parto della fantasia, l'anelito di una fervida immaginazione,
un'utopia fatta di nera lava vulcanica rappresa e pietra pomice bianco immacolata.
Una "Roccia Spezzata" in mezzo all'Oceano, in mezzo al nulla, senza
approdo, in balia delle onde del mare, la punta di un vulcano emerso innevata
di guano degli uccelli colonizzatori, sule e gabbiani, che ne allietano le
cime tempestose con i loro cinguettii squillanti. L'isola del "Soccorso",
montagnosa, con l'unico insediamento umano dell'Arcipelago, la Marina Militare,
che esplica la funzione di supervisore del governo messicano per la sua salvaguardia
(l'Archipiélago de Revillagigedo é stato dichiarato
Área Natural Protegida nel 1994 e Reserva de la Biosfera nel 2008).
L'isola di "San Benedetto", che sia benedetta!, imponenti faraglioni
dalle tonalità dell'avorio, che formano una cornice istoriata per un
mare color dell'inchiostro.
L'isola che non c'é, titolava un cantautore nostrano una delle sue
più famose canzoni. Sembra finta questa Revillagigedo, eppure, come
nella migliore tradizione, la realtà supera la fantasia e travolge
ogni più ottimistica aspettativa. Off the beaten track, fuori dai sentieri
battuti, del tempo, dello spazio, della mente e del cuore.
Parte I
Il tempo
Il tempo si dilata. E' la dimensione di ogni viaggio. Quando
si parte, anche per pochi giorni, si ha la sensazione di essere via da casa
da molto più tempo, come se ogni minuto lievitasse in frazioni di ore,
di settimane, di mesi.
Nel caso di Socorro, l'idea di tempo dilatato corrisponde ai tempi di percorrenza.
Ci vogliono quattro giorni e tre notti per raggiungere le Revillagigedo dall'Italia,
un viaggio nel viaggio. Anzi, tanti piccoli viaggi, ciascuno dei quali con
il suo bagaglio di esperienze, curiosità e fascino.
Nell'aeroporto di Ciudad de México regna sovrano il
caos. Non si trovano i corrispondenti dell'agenzia viaggi nel marasma dei
cartelli in bella mostra. Forse sono i viaggiatori ad essere confusi, frastornati
dal fuso orario, e si sentono orfani, estranei nella terra di nessuno. Cominciano
a pensare a come cavarsela. Possono sempre emulare le gesta del Tom Hanks
della Krakozhia finito in un nonluogo e rendere The Terminal la propria casa
permanente a fronte di tanta precarietà. Alla fine gli incaricati del
tour operator li recuperano, fanno l'appello come a scuola, per scongiurare
il pericolo che si smarriscano di nuovo, e li trasferiscono nell'hotel a cinque
stelle dell'aeroporto. Che lusso! Adesso, rassicurati e coccolati dai gentilissimi
messicani della reception, si possono anche permettere di cincischiare, di
indulgere in rilassanti chiacchiere e risate prima di sprofondare in un sonno
rigeneratore tra i morbidi guanciali e le lenzuola immacolate del comodo letto
a due piazze in dotazione a ciascuno.
Il giorno dopo si approda in un altra terra ancora, la Baja California
Sur.
E' sempre Messico, ma l'idioma prevalente ha l'accento gergale
della lingua nordamericana. "Hi guy!" Ma guy a chi?! E pensare che
il solo rivolgersi ai messicani con poche parole di spagnolo crea, tutte le
volte, un piccolo miracolo: gli occhi gli si illuminano, si girano di scatto,
in preda ad uno stupore emozionato, che esprimono con un sorriso solare e
avvolgente. "¿Hablas español?" E' il riconoscimento
della loro identità, é un segno di rispetto, il rispetto che
passa attraverso una comunicazione autentica. Colpisce soprattutto qui, in
Gringolandia, area dei conquistatori americani. Los Cabos, l'ultimo lembo
di terra messicano proteso verso l'Oceano Pacifico, é artificiosamente
costruito a misura di Yankee. Ma non si creda che l'atteggiamento apparentemente
compiacente dei locali sia una resa incondizionata allo straniero invasore.
Basta fare un pò d'attenzione nei luoghi di ritrovo, basta notare ed
imitare le più semplici norme di buona educazione della loro cultura.
Come quando nei ristoranti si alzano a fine pasto e augurano "¡Que
aproveche!" al vicino di tavolo, o come quando, in ogni circostanza,
salutano sempre con un "Buenos días" o "Buenas tardes"
all'arrivo, e con un benaugurante "¡Y que te vaya bien!" alla
partenza.
Cabo San Lucas. Un susseguirsi di locali, discoteche, luci
stroboscopiche per attirare un turismo sfrenato, che può finalmente
mollare gli ormeggi dei divieti americani e sfogarsi nella terra confinante
del permissivismo. Luminarie che promuovono "las mujeres mas bellas del
mundo", "cantinas" italiane che offrono "pizza al viagra",
discoteche dove le cameriere servono i clienti in mutande e reggicalze. Il
tutto condito dalla consumata perizia dei lavoratori messicani che incitano
gli avventori col suadente accento latinoamericano, così esotico, very
exotic! Tutto si compra in dollari US, e il cambio é puntualmente sfavorevole.
Giusto sovrapprezzo da pagare per non aver avuto la pazienza e l'umiltà
di andare a cambiare i dollari in pesos in banca o alle casas de cambio.
I semafori del lungo viale orlato di cactus giganti occhieggiano ai pedoni
e simulano il passo per attraversare la strada con un omino fosforescente
che corre, mentre i numeri illuminati scorrono a ritroso, ad evidenziare il
conto alla rovescia dei secondi che mancano allo scattare del rosso. Al muelle,
il porto, in mezzo a lussuosi yacht che battono bandiera panamense o di qualche
altro porto franco, le egrette fanno la punta per ghermire l'esca. Sono immobili,
a scrutare la superficie dell'acqua. Improvvisamente affondano il becco e
pescano con uno scatto pari al guizzo di una frazione di secondo, velocissime.
Altrettanto veloce é il pellicano che si fionda come una furia a rubarle
la preda. Il dorso nero di un leone marino fa capolino tra i flutti. Si diverte
a sconfinare tra le imbarcazioni, in cerca di qualche rimasuglio di cibo.
E dopo il primo bagno benaugurante nel Pacifico, arriva il momento della partenza.
Ci si imbarca, eccitati e ansiosi, pronti ad affrontare ventiquattro ore di
navigazione verso l'ignoto. Verso l'isola che non c'é.
Parte II
Lo spazio
La barca esce dal porto all'ora del tramonto, solenne.
Percorre le prime miglia lentamente. Mostra orgogliosa la visuale dell'Arco
de Los Cabos inondato dagli ultimi raggi del sole che insinua i suoi riflessi
dorati attraverso le ombre della roccia scolpita dal vento.
I membri della tripulación mettono subito i clienti della barca a proprio
agio, preparando squisiti margarita che incrementano, in poco tempo, l'euforia
generale. Solo l'onda lunga dell'Oceano tenta di porre un freno all'illimitata
baldanza alcolica, che prosegue in grande allegria. E' il ¡bienvenidos
a bordo! che allieta la traversata e trasgredisce le ferree regole d'"ingaggio"
che dovranno essere seguite alla lettera nei giorni a venire durante le attività
subacquee. Il mare si placa nella notte e culla i sonni pieni di sogni e di
speranze dei navigatori.
Alle 16 del giorno dopo, con lieve anticipo sulla tabella di marcia, la barca
ormeggia in prossimità di faraglioni di roccia pomice color alabastro,
preceduta dal più esuberante comitato d'accoglienza, un nutrito gruppo
di delfini che saltano a prua. Isla San Benedicto, la prima
tappa.
E' il momento del check dive. Proibito andare in decompressione, pena il divieto
di immergersi il giorno successivo.
Un districarsi di tunnel a Las Cuevas e già ci si
perde per indugiare, schiacciati nella grotta, ad osservare gli squali pinna
bianca adagiati sul fondo a sonnecchiare. La visibilità é scarsa,
la temperatura dell'acqua é fresca, la risacca impegna i subacquei
nella verifica delle proprie capacità di adattamento. Va assecondata
in maniera opportunistica, basta imitare i pesci che rimangono immobili quando
la corrente é contraria, e approfittano del flusso a favore per seguire
l'onda e farsi trasportare senza sforzo. Troppo impegnati a controllare la
propria attrezzatura e il proprio assetto per fantasticare su ciò che
i prossimi siti d'immersione riserveranno, si é colti totalmente alla
sprovvista alle prime luci dell'alba del mattino seguente a El Cañón e si é travolti dallo stupore assoluto!
Non si é minimamente preparati alla visione di cento squali martello
in gruppo che nuotano sinuosi nella luce lattiginosa. Fermi dietro le rocce,
é come stare al balcone e ammirare una parata marziale e composta,
con gli "sfirnidi" che deviano il loro corso per osservare da vicino,
con gli occhi piazzati ai lati della protuberanza della testa, quegli strani
intrusi ammutoliti per lo sbigottimento. Chi se l'aspettava! Non era affatto
scontato ed é solo la prima delle meraviglie imprevedibili di questo
luogo, foriero di irresistibili lusinghe come il canto delle sirene.
La prima uscita del mattino é quella magica e ogni gruppo, a turno,
ha la chance di fare il pieno, quando si ha la fortuna di precedere gli altri.
Piccoli comprimari si palesano all'improvviso. La torpedine elettrizza l'aria
delle bolle. Una razza grigia oceanica dalle ali appuntite fa una breve sortita.
E' sfuggevole, veloce. Preziosa nella sua rarità. Un flash e un desiderio
insperato, appena sfiorato.
Ma la regina indiscussa delle Revillagigedo si fa attendere, come ogni vera
signora che si rispetti. Si concede solo alla terza immersione ed é
talmente eccitata che marca il territorio, espellendo dalla coda liquidi organici
che lasciano una scia nebulosa...! La manta gigante del Pacifico attanaglia
gli astanti con il suo volo planato e li imprigiona a sé, ipnotizzandoli
con il movimento lascivo delle sue grandi ali e tramutandoli in vittime compiacenti
di un incantesimo. Non c'é bisogno di affannarsi ad inseguirla. E'
lei che si avvicina dolcemente e sfiora i corpi sospesi a mezz'acqua con le
sue movenze morbide e provocanti. E resta lì, nell'eterno ritorno di
una danza a giri concentrici, la cui bellezza smuove le più profonde
corde del sentimento.
Il capitano avvisa la ciurma che l'area dell'Arcipelago é interessata
da una tormenta. Nell'attesa che i fenomeni atmosferici definiscano la loro
traiettoria, si parte in direzione di Socorro. Il mare é mosso, e anche
coloro che si vantano di non risentirne soffrono di chinetosi, che é
una reazione fisiologica assolutamente naturale. Ci si difende come si può.
Chi applica il cerotto dietro l'orecchio, chi si ritira in cabina, chi si
stende sui lettini prendisole sul ponte di poppa a scrutare il mare, col viso
sferzato dal vento. Il modo migliore di neutralizzare il "mareo".
La sagoma del vulcano appare in tutta la sua imponenza al sorgere del sole
e domina l'Oceano. L'isola di Socorro é l'avamposto
della Marina Militare, distaccata dal governo messicano a salvaguardia di
questo sconosciuto paradiso terracqueo.
A Cabo Pierce si va a tentoni.
La scarsissima visibilità ovatta tutto a tal punto che, quando ci si
trova di fronte una coppia di delfini tursiopi del Pacifico, si trasale perché
non li si é visti arrivare. La silhouette di una manta si staglia in
controluce e incrocia la sagoma di uno squalo martello. Se non fosse per la
certezza assoluta di morire annegati, i subacquei starebbero tutti a bocca
aperta per lo stupore! Una pastinaca dalla livrea nera si adagia sulla cresta
della parete rocciosa a strapiombo, e la sua ombra si proietta attraverso
i fari della fotocamera che l'immortala.
Al tramonto, il sole digrada a picco sul mare e disegna una striscia scarlatta
sulla linea dell'orizzonte. Le guardie costiere, in tuta mimetica, salgono
a bordo per i controlli di routine, e dopo l'ispezione, escono a poppa a salutare
gli stranieri con il modo consueto dei messicani, sorridente e educato.
La barca oceanica sfida le condizioni degli alti marosi e intraprende la traversata
di nove ore verso Roca Partida. Le onde sbattono sulla chiglia, e chi occupa
le cabine di prua rimane steso immobile ad assecondare l'effetto centrifuga
del mare in tormenta. E' l'unico modo per tenere sotto controllo la situazione
e mettere a tacere lo stomaco sottosopra!
L'alba sorprende gli assonnati ed intrepidi esploratori degli oceani con una
palla di fuoco che illumina il proscenio. La sconfinata marea senza soluzione
di continuità si fregia di un solitario elemento d'arredo. Architettura
della natura, Roca Partida, la roccia spezzata in due, si
erge drammatica e selvaggia dalla superficie. Si staglia verso il cielo, bianca
come la neve. Il guano di sule e gabbiani, che ne allietano le vette col loro
volo disordinato e chiassoso, la ricopre completamente. Una roccia in mezzo
al mare, in the middle of the nowhere, in mezzo al nulla. Soltera, altera,
isolata, grandiosa.
Si perizia la base inabissata. E lì lo spazio si fa mondo, mondo sommerso,
esplosione di vita, incontaminata, primordiale, affollata. Muri di carangidi,
tonni, bonito e liutianidi, e in mezzo squali, tanti, di tutte le specie,
che percorrono liberi e spavaldi la traiettoria circolare. Circumnavigano
il vulcano sottomarino, in lungo e in largo. Squali Galápagos si arrampicano
sulla vetta del pinnacolo, squali Punta Plateada nuotano indisturbati e dall'alto
sembrano aerei con le luci di posizione accese. Squali martello si fanno beffe
degli attoniti subacquei che li cercano in profondità. Appaiono invece
in alto, a dieci metri o anche meno dalla superficie. E' l'unico posto al
mondo dove si potrebbero vedere in snorkeling! Le diverse specie si mischiano,
vanno in gruppo, tutte insieme, senza pregiudizi di razza, in un plateale
esempio di integrazione multietnica. Senza competizione né prevaricazione,
col rispetto dovuto ai grandi predatori in cima alla catena alimentare, si
fiancheggiano in uno scambio di mutuo soccorso. E nel bel mezzo di questa
variegata comunità, una famiglia di squali martello di varie misure
insegna l'arte del nuoto ad un piccolo appena nato, che si contorce come una
trottola in preda ad un divertimento convulso e sfrenato.
I sub vanno a yo-yo, sotto e sopra, esattamente quello che non si dovrebbe
fare! Salgono a nove metri per osservare l'assembramento
di squali pinna bianca adagiati l'uno sopra l'altro negli anfratti della parete
rocciosa, per poi ridiscendere in picchiata a trenta metri
di profondità perché intercettano la traiettoria di squali pinna
argentea nel blu, per risalire di nuovo a tutta velocità di venti metri
ad osservare squali galápagos e seta che si attestano flemmaticamente
a poca distanza dalla superficie. La guida chiama, conta, rimprovera, rimbrotta,
stigmatizza. E' consapevole della sua responsabilità, é attenta
e vigile. Spiega che il rischio di MDD (malattia da decompressione) é
concreto e questo comportamento può solo favorirlo, ma i subacquei
nicchiano...e non resistono! Roca Partida é come le montagne russe,
un'eccitante e incosciente altalena. L'unica consapevolezza é la percezione
che un luogo come questo non ricapiterà nella vita. Ci si fa trascinare,
sopra e sotto, controcorrente, incuranti del termoclino, per goderne fino
all'ultima bolla d'azoto. E si perde il controllo.
La sera sul ponte, ancora increduli della malia che la Roca ha fatto a tutti,
ci si stende a guardare il cielo, ad ascoltare l'infrangersi delle onde in
questo luogo senza approdo. Un bobo pata roja, sula dalle zampe rosse, plana
sulla balaustra della poppa. Si piazza lì, tranquillo, ad osservare
le facce sognanti e stralunate degli strani visitatori della sua terra emersa.
L'ultimo giorno si rientra a San Benedicto per il sorprendente ed inaspettato
colpo di scena finale. L'equipaggio ha voluto riservare per ultimo il sito
chiamato la Caldera (Boiler) in una climax ascendente mozzafiato.
Sì, perché alla Caldera accade l'inverosimile.
E' la più grande stazione di pulizia dell'Oceano, il luogo di ritrovo
delle mante giganti del Pacifico, tutte nere, bianche e nere, di cinque metri
di apertura alare, con le remore marmoree piazzate sulla livrea luccicante.
Sono sette-otto in contemporanea, volteggiano maestosamente con la grazia
dell'Étoile dell'Opéra di Paris, incomparabili ed ineffabili.
Circondano i subacquei, sfiorandoli, provocandoli, avvolgendoli in circolo.
E' uno spettacolo che incanta, come a teatro. E' un film d'essai in bianco
e nero, come al cinema. E' un documentario del National Geographic. E si spartiscono
la scena con gruppi di delfini tursiopi del Pacifico, possenti, potenti. Giocano
con le bolle, le rincorrono. Ci si infilano, sbarazzini, sbruffoni. Fanno
rapide e repentine puntate ad osservare i volti coperti degli stravaganti
palombari e scorgono occhi umidi dietro il vetro delle maschere. Una delfina
in posizione supina si lascia abbrancare dalla pinna di un delfino che le
si adagia sopra e la bacia ritmicamente sul collo. E' immobile e accondiscendente,
asseconda il rito del corteggiamento, per concedersi nell'accoppiamento al
maschio che ha saputo scaldarla con dolci preliminari.
La natura va in scena, in un luogo del mondo sconosciuto, ricco di segreti
insondabili.
L'ultimo colpo d'occhio é un giro con la panga, il gommone, ad ammirare
gli archi naturali delle rocce modellate dal vento e dalle onde. Uno squalo
martello fa capolino in superficie, timido e curioso al tempo stesso. E' l'ultimo
saluto di questo remoto e strabiliante angolo del pianeta prima di affrontare
la traversata di ritorno verso la terraferma. Qualcuno, munito di coperte
e cuscini, si prepara il giaciglio per la notte sul ponte. Sballottato dalle
alte onde dell'Oceano, guarda in alto, guarda le stelle. Improvvisamente una
si stacca, precipita e lascia dietro di sé una scia luminosa che incendia
il cielo. E' un attimo, ma sembra non finire mai. Un attimo di eternità,
lungo abbastanza da dare il tempo di esprimere un desiderio, già sapendo
che, anche se si esaudirà, non potrà mai superare l'appagamento
che Socorro ha appena generosamente donato.
Parte III
La mente e il cuore
Il commiato é doloroso. I discorsi dell'ultima cena
sono imbarazzati, stentati. E' il conto che il cuore presenta alla mente.
Perché é difficile esprimere a parole quello che si é
provato, quello che si sente dentro. Parlano gli abbracci, parlano le lacrime,
parlano i silenzi. L'avvolgenza dei messicani dell'equipaggio, la stretta
di mano del capitano, gli sguardi umidi dei compagni di viaggio. E' l'emozione
assoluta che non sa esprimersi, che blocca la mente e sblocca il cuore, gonfio
di commozione.
L'isola che non c'é, così discreta e schiva, riservata e modesta,
ha toccato il cuore degli uomini e ci si é insediata. Adesso c'é
e resta lì.
Per sempre.
Paola Ottaviano |