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Amazing Thailand: aspettando il lieto fine!
Pensieri controcorrente
di Andrea Bicini
La maggior parte delle persone associano nella loro mente
la parola Tailandia (o Thailandia per chi preferisce inglesizzare il nome
di questo splendido paese) a sole, caldo, spiagge bianche, elefanti, tutte
immagini che per la maggior parte dei turisti riflettono uno spaccato
infinitamente minoritario di quanto in realtà il Regno di Siam
possa offrire. Le mie parole potranno suonare a molti come controcorrente
ma nel corso del tempo ho imparato ad amare questo paese e la sua gente,
nonostante il mio impatto iniziale non sia stato quello che solitamente
ha il turista spensierato in cerca di divertimento. La Tailandia non è
il paradiso in terra ma un paese ricco di contraddizioni, il cui popolo
soffre del divario socio-culturale ed economico fra aree rurali e mete
turistiche e dove la gente sorride per imbarazzo più che per cortesia.
Un paese che prende il cuore e lo trasforma, arricchendolo con tutte le
bellezze che ha da offrire ma che allo stesso tempo può renderlo
duro come difesa all’eccesso di emozioni
Bangkok rappresenta la principale via d'accesso non
solo per chi è diretto qui in Tailandia ma anche per tutti coloro
che si dirigono nel Sud-Est Asiatico e in Oceania. L'Aeroporto Internazionale
di Suvarnabhumi, aperto nel 2006, è uno dei più trafficati
di tutta l’Asia e in molti decidono di effettuare uno stopover per
godere del fascino della capitale . I ristoranti
e gli hotel
di Bangkok consentono ancora di godere di un senso di tradizione e
di ospitalità genuina che in altre città ipertecnologiche
dell’Asia sono andati progressivamente scomparendo. Nel corso del
tempo la fama turistica di Bangkok e di tutto il resto del paese si è
accresciuta determinando fenomeni talora deplorevoli per il mondo occidentale.
Negli ultimi anni, fortunatamente, gli sforzi del Governo Tailandese e
delle Organizzazioni Internazionali hanno contribuito a ridurre drasticamente
la tristemente famosa piaga del turismo sessuale e della pedofilia anche
se la strada da percorrere affinché tutto ciò abbia fine
è sicuramente ancora lunga. Ma siamo davvero in tanti, tailandesi
ed expat che per motivi diversi hanno scelto la Tailandia come loro fissa
dimora, a credere che spetti a ciascuno di noi compiere il primo passo
per rendere giustizia ad un popolo che, spesso per disperazione, si lascia
travolgere dalla violenza del sopruso economico del mondo occidentale.
Mi ritengo fortunato. Sono arrivato in Tailandia un po’ per caso,
in vacanza, in fuga dall’Italia. Quando oramai 2 anni fa casualmente
esplorai da Nord a Sud una buona percentuale dei suoi oltre 500.000 km²,
partendo da Chiang Mai, passando per l’antica capitale Sukhothai
e la tecnologica Bangkok, e terminando nella spettacolare e poco nota
isola di Koh
Lipe, non avrei immaginato che dopo solo un mese avrei fatto le valige,
chiuso casa e che mi sarei ritrovato a vivere e lavorare nella “terra
del sorriso”. Trovare lavoro in Tailandia per chi non sia madrelingua
inglese non è poi così semplice ma la determinazione che
mi caratterizza non mi ha fatto demordere e in breve ho ottenuto visto,
contratto, assicurazione sanitaria. Ma soprattutto amici!
Proprio con un gruppo di amici, in un sabato sera dell’oramai lontano
ottobre del 2008, mi trovavo nel quartiere meno tailandese di Bangkok,
Khao San Road, per celebrare spensieratamente una delle festività
buddiste tailandesi, ignaro di quanto a breve sarebbe successo. Uscito
dal locale ancora sobrio (a differenza del resto del gruppo con cui ero,
che nonostante l'elevato tasso alcolico nel sangue aveva deciso di fermarsi
per un altro "bicchierino") mi sono incamminato per prendere
un taxi e tornarmene a casa... sul bordo della strada, rannicchiato su
una borsa di plastica gialla, un bambino solo dormiva senza nessuno accanto...
qualcuno gli aveva appoggiato accanto un piatto con del cibo (come da
noi farebbero le gattare con un cuccioletto che non si potessero permettere
di raccogliere) e un bicchiere di plastica con delle monete... Una scena
surreale ma in realtà piuttosto comune in questo paese. All’improvviso
mi sentii catapultato in una scena da film visto che purtroppo non riesco
a farmi gli affari miei. In pochi istanti ero stato in grado di mobilitare
2 cari amici, un americano e una tailandese: loro, purtroppo abituati
a certe scene, come primo suggerimento dissero che sarebbe stato meglio
lasciare stare. Credo che siano stati i miei occhi lucidi e la rabbia
per l’indifferenza a convincerli ad aspettare con me per vedere
se ci fosse qualcuno che lo stesse "monitorando" da lontano
al solo scopo di creare compassione nei passanti. Volevo essere sicuro
che nessuno gli facesse del male. Trascorsa una mezz'oretta senza che
nessuno si avvicinasse al bimbo (a parte qualche turista incuriosito che
lasciava 5 o 10 Baht -ci vogliono oggi 39 Baht per fare 1 €) la decisione
di attraversare la strada con il bimbo e di entrare al posto di Polizia
distrettuale. Ho così preso in braccio il bimbo che che stranamente
non si riusciva a svegliare, ho attraversato la strada e sono entrato
nella stazione di polizia... Nessuno che parlasse una parola d'Inglese.
Pear spiegò come stavano le cose ad un agente il quale, con tutta
naturalezza, rispose di riportare il bambino in mezzo alla strada o, se
volevamo, di portarcelo a casa! E non scherzo!!!
A quel punto chiediamo che loro facessero qualcosa. Visto che la richiesta
proveniva da due “farang” (termine thai che indica gli stranieri
occidentali) ci chiesero di portare il bimbo, ancora addormentato, al
piano superiore dove avevano una stanza... UNA STANZA? ASSISTENTI SOCIALI?
SERVIZI PER I MINORI? NO! Nulla di tutto ciò. Una cella, 2metri
X 2... buia, puzzolente ed umida. Fra le mie braccia questo pupazzo inerme
continuava a dormire. La buona sorte, il buon Dio, la Provvidenza, chi
volete voi, ha fatto sì che arrivasse un'ambulanza con un'infermiera
trans disponibilissima la quale, controllato il bambino ci spinse in una
volante della polizia parcheggiata. In meno di 1 minuto ci siamo visti
tutti e 4 catapultati in una frenetica corsa diretti verso il pronto soccorso
più vicino. Vi lascio immaginare i nostri cuori.
Arrivati al Pronto Soccorso iniziano le indagini: pressione sanguigna
bassa, febbre. Via di corsa in sala visite. Come per incanto il bimbo
si sveglia, non completamente, non proprio lucido ma con gli occhietti
a mandorla socchiusi si aggrappa al mio collo come una scimmietta spaventata.
Nel corso della visita emerge una disfunzione cardiaca che necessitava
ulteriori accertamenti. L’attesa del cardiologo non sembrava aver
fine. Lentamente l’angioletto inizia a prendere confidenza, grazie
anche ai cartoni animati fortunatamente salvati sul cellulare. Ed ecco
che un’allegra comitiva si scatena... e vai di giochi, musichette
e video dai cellulari, latte e cioccolato. Tuun iniziò a parlare
(in Thai dice inizialmente di chiamersi Maa -ovvero cane- poi dice di
chiamarsi Tuun, solo dopo alcuni giorni viene fuori che il suo nome era
Ef): scopriamo che non era con la mamma ma con un uomo che chiamava zio
e che era abituato a trascorrere la notte in strada. Finalmente ci portarono
in pediatria. Erano oramai le 5 del mattino! Tuun era così fortemente
attaccato al mio collo che non credevamo fosse possibile lasciarlo lì.
A causa del suo disturbo cardiaco, determinato dalla somministrazione
di una imprecisata sostanza stupefacente in grado di tenerlo assopito
durante la notte in strada, un repentino trasferimento in terapia intensiva.
I suoi occhietti furbi brillarono quando ci vide entrare nella sua cameretta.
Per un mese la mia pausa pranzo al lavoro e il dopolavoro
non fu altro che un viaggio interminabile per poterlo vedere e fargli
sentire che non lo avremmo abbandonato. Il mio stipendio tailandese (e
parte di quello dei miei amici) si disperdeva in taxi, treno, caramelle,
gelati, giocattoli e pigiamini. Le giuste conoscenze e le richieste d’aiuto
diedero i loro frutti e in quattro settimane un’associazione tailandese
per le adozioni ci assicurò che avrebbero trovato una famiglia
affidataria. Non un orfanotrofio. Non lo avrei consentito.
L’attaccamento reciproco nell’incapacità di comunicare
spinse entrambi a sforzi incredibili: imparare a comunicare nelle reciproche
lingue nel minor tempo possibile per giocare spensieratamente. All’ospedale
Vajira la solidarietà si respirava forte fra le tante persone che
non hanno abbastanza soldi per recarsi nelle modernissime strutture costose
private. Con il nulla si sorrideva, ci si aiutava, ci si sosteneva. Un
pomeriggio al mio arrivo le mamme mi accolsero con gli occhi pieni di
lacrime. Ef non c’era più. Non credo sia possibile immaginare
quello che io abbia potuto provare. Il mio thai da sopravvivenza non mi
consentiva di capire cosa stesse accadendo. L’unica infermiera che
parlasse inglese arrivò di corsa nel sentire il trambusto che solamente
un italiano può creare in pochi secondi. Ef era stato prelevato
quella mattina stessa per essere portato in orfanotrofio senza che io
fossi presente al momento della sua dimissione. Motivazione: secondo la
psicologa era preferibile che io non manifestassi la mia emotività
davanti a lui e che il non vedermi all’uscita avrebbe facilitato
il processo di adattamento per lui nel nuovo ambiente. Ma non era tutto:
non avremmo potuto rivederlo per non dargli l’impressione che sarebbe
stato con noi. Vane le mie proteste. Un’unica consolazione: stava
bene e se ne era andato dicendo all’infermiera di dirmi di aspettarlo
perché sarebbe tornato presto.
Il concetto di tempo in un bambino è diverso da quello di un adulto
e per me 12 mesi sono stati un’infinità.
Dicembre 2009. Inaspettatamente una telefonata dai servizi sociali avvertiva
me e i miei amici coinvolti nella fase iniziale di questa neverendingstory
che avremmo potuto rivedere Ef. Il mio regalo di Natale sarebbe arrivato
con 2 settimane d’anticipo.
I preparativi per l’incontro segnarono i giorni che ci separavano.
Con l'amica tailandese che era con me quella notte siamo andati nell'orfanotrofio
dove inizialmente venne accolto Ef. Al nostro arrivo la responsabile ci
disse che lui non era ancora arrivato e che non dovevamo aspettarci nulla...
dopo un anno la possibilità che non ci riconoscesse era alta. Un
fiume di domande uscirono nell’attesa del suo arrivo. Le RX dei
denti avevano dimostrato che ha poco più di 4 anni, vive sereno
con una famiglia affidataria, la sua reale famiglia non e' stata rintracciata
nonostante i numerosi tentativi, nessuno ha mai fatto denuncia di rapimento
o smarrimento di un bimbo con quelle caratteristiche e presto avrebbe
iniziato ad andare a scuola. Poco dopo il furgoncino con i bambini che
venivano per vedere i parenti e' arrivato... Ef e' stato l'ultimo a scendere.
E' corso dall'Assistente sociale ed ha guardato me e Pear... negli occhi
si leggeva che era disorientato... come ogni volta che lo lasciavamo quando
era in ospedale... Ma c'e' voluto poco perché si avvicinasse a
noi... e chiamasse Pear per nome e me "zio", come mi chiamava
in ospedale! Si era ricordato di noi. Non mi vergogno a dire che a stento
ho trattenuto le lacrime! Le 2 ore successive sono trascorse in un batter
d’occhi!
Se Ef avesse reagito positivamente a quel primo incontro
avremmo poi avuto la possibilità di rivederlo. Non avevo dubbi.
Dopo altre 3 settimane una nuova telefonata: nei giorni successivi al
nostro incontro Ef si era dimostrato particolarmente sereno, aveva socializzato
con gli altri 2 bambini ospiti della stessa famigli e aveva espresso il
desiderio di rivederci.
Ed è così che ora passo il mio secondo martedì del
mese, andando a trovare l’angioletto dagli occhi a mandorla. Il
resto del tempo aspetto… aspetto che abbiano inizio le pratiche
per le adozioni, che vada a scuola, che cresca sereno in questo paese
che all’inizio non ha saputo dargli l’amore che ogni bimbo
merita ma che ha davvero tanto da offrire a chi sappia accettarne le contraddizioni
e non si fermi semplicemente all’apparenza: Amazing
Thailand. Aspetto un lieto fine che non potrà non arrivare!
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